Dipendenza da Smartphone

 

Tutti, credo, ci siamo soffermati ogni tanto a pensare a quanto gli smartphone e i social network abbiano cambiato le nostre abitudini, il nostro modo di rapportarci agli altri e perfino, in qualche maniera, il nostro modo di pensare. Alcuni di questi cambiamenti non ci piacciono; ma li riteniamo cambiamenti di cui, per ragioni di lavoro o per ragioni sociali e affettive, non vogliamo o non possiamo più fare a meno. Nell’ottimo libro di Patricia Wallace, “La Psicologia di Internet”, viene abilmente illustrato come le persone finiscano per costruire online una versione parzialmente diversa, in qualche modo “potenziata” di loro stessi, avendo tempo e modo di esercitare un attento controllo per esempio sui testi che scrivono meticolosamente, o potendo correggere e modificare le proprie foto.Usualmente, chi è abituato a “tenere un diario” lo fa privatamente, spesso stando attento a custodire i propri pensieri, le proprie emozioni impresse su carta in luoghi non accessibili né ai propri familiari, né tantomeno ad una più o meno vasta platea di persone. Sappiamo bene che il diario sul web è qualcosa di molto diverso; perchè lì i fatti, i pensieri, le gioie e i dolori, le nascite e i lutti, gli album fotografici dei viaggi, vengono condivisi.

Condividere, fare mostra di sé stessi con “amici” che in molti casi sono in realtà sconosciuti o persone conosciute a malapena è ormai qualcosa di ordinario. Fa parte del gioco e spesso dà anche evidentemente soddisfazione. Perchè le nostre foto ricevono i “mi piace”, le nostre esternazioni incontrano pareri spesso concordi da parte di chi ci dà man forte e ci dice “Ben detto, sono d’accordo”, e noi percepiamo di ricevere considerazione, approvazione e ammirazione.Come quando qualcuno vede le foto del nostro ultimo viaggio e scrive che vorrebbe essere al nostro posto. La nostra sicurezza, il nostro ego, ha finito per nutrirsi anche di questo. A volte troppo.

Probabilmente non è un caso che fino ad ora i manager di Facebook non si siano azzardati ad inserire tra le opzioni comunicative un tasto “dislike/non mi piace”; parliamo del resto di un social network costruito -comprensibilmente- per amplificare e rafforzare le interazioni connotate positivamente, e per tendere a non dare risalto e a lasciare silenti le eventuali disapprovazioni che potremmo ricevere.(Certamente questa regola non vale sempre, e soprattutto non vale per le pagine pubbliche di giornalisti, bloggers, e di quanti a vario titolo scelgono di proporre notizie, articoli e opinioni che saranno sì, a quel punto, alla mercè anche di chi non vede l’ora di dare sfogo alla propria violenza verbale, complice la distanza, il relativo anonimato, e una tastiera…).

Così, eccoci arrivati a questo punto, spesso molto attaccati al proprio smartphone, a volte veramente dipendenti da esso; o meglio, da ciò che esso contiene: gli altri, gli amici e pseudotali, i loro “likes”, il loro sapere che esistiamo e stiamo almeno apparentemente facendo qualcosa della nostra vita. Possiamo anche scegliere di mostrare poco o nulla di noi stessi, ma restiamo alla finestra a vedere cosa dicono, cosa fanno, come si sentono loro. Non ce ne separiamo veramente mai.

Credo sia questa una tra le cose importanti che ci ha portato via la tecnologia di cui parliamo: la separazione, il distacco. Nessuno a volte sembra saper più davvero aspettare, vivere un’attesa, avere la pazienza di restare solo. Come i bambini che hanno paura del buio tengono una piccola luce accesa per stare tranquilli, noi teniamo il telefono in tasca.

Non possiamo non avere gli amici, il lavoro, i nostri affetti sempre a portata di mano. Non possiamo non avere tutto sotto controllo. Comincia infatti a crescere il numero di persone – spesso adulte – che presentano sintomi di quella che è stata definita “nomofobia” (dall’inglese no mobile), ovvero la condizione di marcata ansia (tale da sfociare a volte nel panico) associata all’assenza dello smarphone o al solo timore che possa scaricarsi o non avere campo in alcune zone.

Le possibilità comunicative di cui disponiamo oggi sono da molti punti di vista e in molti modi una benedizione; è necessario però prestare attenzione a non utilizzarle in modo distorto e riconoscere se e quando le nostre abitudini rispetto alla necessità di stare sempre “connessi” non ci stiano invece portando ad alienarci da una realtà più vera, piena e concreta, con la quale varrebbe la pena riprendere maggior contatto.